A Passaggi Festival la storia di Salvatore Striano ‘Sasà’, ex membro delle Teste Matte, clan di ragazzini divenuti camorristi per difendersi dalla Camorra: autobiografia di una rinascita attraverso Shakespeare

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Alle teste matte servono parole. Cosa vuol dire in fondo, essere una testa matta? Vuol dire probabilmente avere problemi con tutto quello che è sovraimposto senza che ne vengano mai date spiegazioni, voler scrivere il copione della propria vita, senza subirlo. Nei Quartieri Spagnoli di Napoli , invece, essere una Testa Matta significa «farsi camorristi per difendersi dalla camorra», tagliare e spacciare cocaina a quattordici anni, sapendo che «se sei dentro al gioco devi giocare, e prima o poi perdi». Significa chiudere con le nuvole e guardare il cielo diventare solo un rettangolo oltre una finestra, perché, come ci ricorda Macbeth, le colpe si pagano sempre. Salvatore Striano, detto Sasà, le sue le ha pagate prima a Madrid, dopo una lunga latitanza, e poi a Rebibbia. Ben lungi dall’essere solo una storia triste, La Tempesta di Sasà è il racconto di uno spirito dell’aria che lotta per la sua libertà, l’Ariel della Tempesta di Shakespeare che rivive nel settore di massima sicurezza di Rebibbia. È Fabio Cavalli a portare il personaggio shakespeariano tra quelle mura grigie in cui vive Sasà, a portare il teatro e le parole a chi le parole non le aveva mai avute. «Quando ti metti a leggere hai un problema: all’improvviso sai un sacco di parole in più. Se poi leggi poesia è peggio: sono parole bellissime. Parole per nominare proprio ciò che qua dentro non sa esprimere nessuno», scrive Striano . Sasà recita, legge, ricomincia a studiare. Le parole adesso sanno dire quello che sembrava indicibile: la mancanza di sua moglie, la libertà mancata e la difficoltà del perdonarsi. Per far fronte alla tempesta della vita a tutti servono le parole, quelle vere, colme di sensi, che costruiscono i nostri pensieri, ci riconciliano con i nostri sentimenti. Quelle parole che scovano la bellezza anche nel dolore, che tracciano sentieri, che fanno ordine, che problematizzano l’ordine già esistente. Striano accusa Dante di empietà, perché fa confessare i peccatori del mondo e poi li condanna, litiga con Beckett la mattina e quando concorda con Baudelaire si accorge che non è giornata. Si perdona mentre perdona Amelia, il personaggio di Eduardo De Filippo che deve interpretare. È in Shakespeare che impara a riconoscere i Macbeth della sua Napoli, tutti gli Amleti che non sanno se vendicare i loro padri morti nella guerra tra bande. Impara a riconoscere se stesso, come un Ferdinando, l’amante premuroso che non è riuscito ad essere e vuole diventare, come l’Ariel che è, affamato di una libertà che forse non ha mai avuto. Striano dice che non gli piacciono le tragedie greche ed è per questo che trattiene le lacrime quando sua moglie si commuove, eppure il teatro per lui è come lo definiva Aristotele: una catarsi. Un vivere di nuovo, ma con consapevolezza, quello che ha vissuto e uno sperimentare quello che può ancora essere. Si fa sempre un gran parlare di cultura, ma cos’è la cultura se non ci salva, se non ci guida, se non ci capisce e non ci fa capire? Cos’è la cultura se non la libertà, la pace e la catarsi delle teste matte? Le teste matte dei Quartieri Spagnoli e di tutti i luoghi, in questo mondo che per dirlo con Shakespeare è un palcoscenico, in cui siamo chiamati a recitare una parte, di cui spesso non conosciamo le parole e il senso che quelle parole, forse, possono ancora darci.

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Il libro

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Salvatore Striano, La tempesta di Sasà.

Chiare Lettere; aprile 2016 (collana Reverse).

Pagine 224; 16 euro.

 

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L’appuntamento

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Sabato 25 giugno, orario 22:15 – 23:15, Chiesa di S. Francesco
Passaggi sotto le stelle: Salvatore Striano, La tempesta di Sasà (Chiarelettere)

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Articolo di Caterina Fossi

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