Karim Franceschi, protagonista della resistenza all’Isis, ripercorre a Passaggi la sua esperienza di lotta al jihadismo al fianco dei Curdi

Figlio di un padre italiano che l’ha avuto nella sua età matura, perso all’età di dodici anni, e di una madre marocchina, Karim Franceschi è un ragazzo marchigiano di ventisette anni, con un diploma di maturità classica e un passato professionale nel campo immobiliare. Oggi la sua identità è legata soprattutto a Marcello, il nome che suo padre si era scelto quando combatteva nelle montagne toscane come partigiano e che Karim a sua volta ha adottato nella sua esperienza di militante al fianco dei Curdi nella loro strenua lotta all’Isis, raccontata in un libro dal titolo Il combattente, edito da Rizzoli ed uscito lo scorso gennaio, un testo elogiato e  ‘benedetto’ anche da Roberto Saviano. Karim, cresciuto nei centri sociali marchigiani (è nato a Senigallia nel 1989) e appassionato di pugilato, è entrato in contatto con la resistenza curda grazie al Rojava Calling, un coordinamento italiano di associazioni, centri sociali e collettivi a sostegno dei Curdi e della loro regione autonoma in Siria. Arrivato a Kobane nel gennaio 2015, passando dal confine turco, Karim si è unito all’Ypg, le truppe volontarie di difesa che lo hanno assoldato nei loro ranghi dopo un breve periodo di addestramento. È cominciata così la sua personale esperienza di resistenza, una realtà non molto diversa da quella vissuta sessant’anni prima da suo padre. L’esercito curdo è un’organizzazione poco gerarchizzata, con i soli veterani che decidono, una dimensione di collaborazione in cui tutti lavorano fianco a fianco per smantellare la funesta egemonia dell’Isis: Karim ha imparato presto a usare il kalashnikov e a sparare, si è immerso fino in fondo nella quotidianità della guerra, delle sue privazioni, della sua imprevedibilità. Unico italiano in un gruppo di vasto e di varia provenienza, Franceschi ha visto morire molti dei suoi compagni e lui stesso ha fiancheggiato la morte, nella prossimità naturale che con essa si ha quando si combatte e la sopravvivenza non è che un’incerta possibilità. Il grande merito di questo libro di memorie, scritto al suo ritorno, risiede proprio in questo, nell’assenza di misticismo o di pretese esornative: la guerra è raccontata per quello che è, un esercizio di violenza.  In questo caso, certo, perpetrato in nome della libertà e della difesa dei diritti civili essenziali, di un’idea altissima di umanità. In mezzo al dolore (quello di veder cadere degli amici, di guardare negli occhi i bambini soldato), Karim Franceschi ci lascia una testimonianza inestimabile del coraggio e dell’integrità di un intero popolo, della sua opposizione ostinata e innegoziabile alla barbarie, l’indomita insubordinazione alla rapacità del male. Un posto speciale, in questo affresco di straordinario ordinario eroismo, spetta alle donne, di cui Karim ricorda lo strano contrasto tra la fragilità del corpo e il vigore dello spirito, la robustezza infrangibile della loro determinazione.

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L’autore

Karim Franceschi è nato nel 1989 a Senigallia da padre italiano e madre marocchina. Nel gennaio 2015 decide di raggiungere Kobane e unirsi alle milizie curde che contrastano l’avanzata dell’Isis in Siria. Karim Franceschi racconta la sua storia in un libro uscito lo scorso gennaio per Rizzoli. 

L’appuntamento

Giovedì 23 giugno, ore 21:15 – 22:15, Piazza XX Settembre.
Karim Franceschi presenta Il Combattente (Rizzoli) conversando con Lucia Goracci (Inviata in Medio Oriente, Rainews24).

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Un estratto dal libro Il combattente per i tipi di Rizzoli

Afferro il Kalashnikov e mi metto a guardare con lui dalla finestrella della trincea. Ha smesso di nevicare, e una luna non ancora piena fa capolino tra le nuvole basse e grigiastre, rischiarando il paesaggio imbiancato. Non vedo niente. Però, nel silenzio ovattato della valle, sentiamo distintamente un rumore provenire da dietro il dosso innevato. Forse il motore di un veicolo, o comunque qualcosa di meccanico. Nell’altra trincea, nessuno si muove. Allungo un braccio e raccolgo un sassolino. Lo tiro verso la buca di Ali e Delsoz, mancando però il bersaglio. Provo ancora, e stavolta li colpisco. Così anche loro si accorgono che qualcosa non va. Ali solleva il telo e striscia in avanti, senza fucile, fino a un punto da cui riesce a vedere cosa c’è dietro il dosso. Steso sulla neve, si ferma un secondo a osservare, poi indietreggia al doppio della velocità, strisciando come un serpente e spostando con le mani la neve in modo da coprire la traccia lasciata dal suo corpo. Cosa cazzo sta succedendo? Hawer mi fissa, ammutolito. Ali non ci ha fatto alcun cenno, prima di rintanarsi nella sua buca. Basta, ho bisogno di sapere. Da qui al punto dov’è arrivato Ali saranno trenta metri, una sessantina di passi al massimo. Alzo il telo e sguscio fuori, camminando basso ma senza strisciare, perché non mi voglio bagnare più di quanto non lo sia già. Nascosto dietro un masso, osservo. A non più di centocinquanta metri dalle nostre piccole trincee, scorgo una ventina di miliziani di Daesh, un carrarmato T-72 e un Hummer, con i fanali accesi e un enorme mitragliatore montato sopra. Ne ho già visto uno uguale, una volta: Giano allora mi spiegò che spara proiettili in grado di sbriciolare le pietre e trapassare i sacchi di sabbia. Il comitato di accoglienza del califfo al-Baghdadi sta venendo verso di noi, eppure io resto calmo, irragionevolmente calmo. Torno indietro con lentezza, prendendomi il tempo per coprire le impronte lasciate dai miei scarponi sulla neve fresca. Entro nella buca con un mezzo sorriso stampato in faccia, guardo negli occhi il mio compagno. Glielo dico in curdo che sta per morire, così che non ci siano fraintendimenti. Em sahiden, heval Hawer… Nella sua lingua, em sahiden significa “siamo martiri”. Se quelli si accorgono della nostra presenza non abbiamo scampo. Non è nemmeno il numero dei miliziani, venti o giù di lì, a rendere assurda qualsiasi ipotesi di scontro a fuoco. È il tank a chiudere la questione. Per non parlare poi di quel mitragliatore montato sull’Hummer: basterebbe da solo a farci fuori tutti. Mentre cerco di spiegare a gesti cosa c’è dall’altra parte del dosso, vengo colto da un attacco di ridarella isterica. Eh, cazzo, ho scelto proprio la notte sbagliata per lasciare il Pkm all’accampamento. Hawer mi fissa con un’espressione tra il terrorizzato e il rassegnato, fatica anche a deglutire la saliva. La fuga non è nemmeno immaginabile, perché per scappare dovremmo correre per un bel pezzo in campo aperto, davanti a loro; a quel punto basterebbe una sventagliata di mitragliatore per ammazzarci tutti e quattro. Dunque facciamo l’unica cosa che resta da fare: il tentativo della disperazione. Raccogliamo quanta più neve possibile e la spargiamo sopra il telo e nella buca, per mimetizzarla al meglio. Usiamo anche qualche sasso, così da confonderla ancora di più con il resto del paesaggio. Poi ci infiliamo dentro, senza lasciare nessuno spiraglio. Siamo completamente al buio, sotterrati tra mucchi umidi di neve e pietre. Sono steso supino accanto al mio Kalashnikov e al compagno Hawer. Entrambi sappiamo bene cosa dobbiamo fare, non c’è bisogno di dircelo. Con la mano sinistra sfilo dal gilet tattico una granata e me la appoggio sul petto, stringendola con forza. Faccio passare il dito medio della mano destra nell’anello metallico che ferma l’innesco della bomba, e lì mi blocco. L’ultima immagine che vedrà chi alzerà questo telo sarà Karim Franceschi che gli mostra il medio, un attimo prima di esplodere. Si stanno avvicinando, lo sento. Il rumore dei cingoli del carrarmato si è fatto più forte, e mi pare persino di avvertirne la vibrazione nel terreno. In fondo lo sapevo che sarebbe andata a finire così, in quest’impresa disperata. Lo sapevo. Il cuore martella dentro al petto; delle vampate mi partono dalle spalle e dal collo in tensione, ma non riescono a scaldarmi veramente, e la sensazione è più quella di essere intrappolato in una cella frigorifera. Ho paura, come non ne ho mai avuta in vita mia. Ho sempre immaginato la mia morte attraverso gli occhi di quelli che amo di più e anche adesso, con la mente, torno nella casa di Senigallia. Immagino il volto affranto di mia madre, che piange disperata. Il suo dolore è come una lama che si pianta lentamente nel mio cuore. Il pensiero corre a Leila, mentre sento la fine avvicinarsi. Alle sue labbra piene, ai suoi occhi di giada, alla promessa di ritornare in Italia che non manterrò. Passano i secondi, non riesco a staccarmi dal ricordo della donna che amo. Non voglio morire prima di averla rivista un’ultima volta… Eccoli, sono vicinissimi. A trenta o quaranta metri da noi, non di più. Il rumore del motore diesel del tank sovrasta le voci dei miliziani. Trattengo il respiro e percepisco che anche Hawer sta facendo lo stesso. Il collo e la mascella sono contratti da far male. Fuori la colonna si è fermata, il carrarmato non avanza più. È finita. Ne sono sicuro: qualcuno ci ha scoperti e, per come si sono messe le cose, mi pare anche l’unico destino possibile. È inevitabile, è ormai solo una questione di secondi. Tirerò l’anello, sì. Non mi farò prendere prigioniero da questi invasati, per finire tagliato a pezzi e trasformato in un mucchio di arti con la mia testa in cima, come è capitato agli sfortunati compagni che ho visto a Kobane. Se è scritto che stanotte devo morire, morirò da partigiano, come avrebbe fatto mio padre Primo: con orgoglio, portandomi qualcuno dei nemici con me. Con il pollice della mano sinistra sfioro la tasca della giacca, a tastare il mio talismano. Stringo la bomba ancor più forte, e faccio una leggera pressione sull’anello; la spoletta si sposta di qualche millimetro. Strizzo gli occhi, in preda all’angoscia. Ho perso la cognizione del tempo. Papà, mamma… datemi il coraggio di farlo. Vi voglio bene.

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Per scaricare il libro, questo è il link.

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Articolo di Carolina Iacucci 

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