Nella giornata di sabato 28 giugno si chiude la rassegna Libri in Piazza nella suggestiva cornice della piazza XX settembre con Luca Steinmann che presenta Vite al fronte. Donbass, Libano, Siria, Nagorno Karabakh: il grande intreccio delle guerre nelle storie di chi le ha vissute edito da Rizzoli. L’autore conversa con Flavia Fratello, giornalista La7
Vite al fronte
Il titolo Vite al fronte fa riferimento al fatto che Luca Steinmann in questo suo racconto dà voce ad un numero molto ampio di testimoni, di persone che vivono in zone in cui si svolgono i conflitti e che lui va a ritrovare quando il conflitto deflagra. Attraverso le loro parole possiamo renderci conto di come appaia diversa la percezione della guerra e di come le divisioni che noi tendiamo a fare, comodi sul divano con i nostri telecomandi in mano ed i commenti alla bocca, non abbiano molto senso. Il libro vuole essere un diario degli ultimi dieci anni, durante i quali l’autore si è ritrovato ad andare su entrambi i lati del fronte. Ad emergere su tutto il territorio non è solamente l’umanità delle persone che si ritrovano a vivere nel cuore del conflitto, ma la volontà che esse esprimono di continuare a vivere in tali territori, nonostante i missili ed i combattimenti incessanti. Luca Steinmann ha voluto conoscere queste persone, mettersi nella loro posizione e cercare di immedesimarsi il più possibile.
“Spesso mi è stato chiesto come facessi a stare così a lungo in un territorio di guerra in queste condizioni. La verità è che per me non era assolutamente difficile perché io non appartengo a quei conflitti, sono un osservatore esterno che si ritrova a descrivere e raccontare un contesto a cui io sono estraneo, a cui non sono legato in alcun modo.
La mia più grande libertà è la consapevolezza di poter tornare a casa in qualsiasi momento, questo psicologicamente fa tutta la differenza del mondo. Le persone che abitano lì non hanno questa libertà, vivono nella consapevolezza che andarsene significherebbe lasciare tutto ciò che hanno, abbandonare per sempre la possibilità che la propria famiglia viva là dove si sente di appartenere“.
Giornalismo embedded tra missili e bombe
Che cosa lega queste persone ai territori in cui, con dolore e sofferenza, scelgono tutti i giorni di continuare a vivere nonostante le piogge di missili? Nonostante il dolore, la morte incessante e una vita di stenti? Luca Steinmann si è posto spesso questo quesito e la risposta che ha sempre ricevuto lo ha sorpreso: “Io rimango qua perché qua ci sono le tombe dei miei avi”. Si genera un attaccamento al proprio territorio ed alla propria identità, soprattutto quando c’è il rischio concreto di perdere questa identità. Da qui nasce la volontà dell’autore di mettere al centro le persone che ha incontrato, trattandosi per lui di una questione di dignità e rispetto, il voler onorare la loro scelta di eradicamento. Dalle pagine di questo libro traspare la difficoltà di situazioni pericolose e rocambolesche in cui si rischia veramente la vita. In questo contesto si inserisce l’espressione “giornalismo embedded” che si riferisce ad una pratica giornalistica in cui i reporter vengono affiancati alle truppe, a situazioni ufficiali, senza la possibilità di scegliere cosa vedere. Si segue ciò che viene imposto. Quale valutazione possiamo fare di quello che ci racconta un giornalista embedded? Luca Steinmann ci racconta che tutto varia a seconda del territorio in cui ci si trova, ci sono contesti e regimi diversi. Esistono contesti in cui si è costantemente seguiti ed il lavoro viene osservato e mediato. L’autore ci racconta che nel conflitto tra Russia ed Ucraina non è mai stato embedded nel verso senso del termine, disponeva del suo appartamento e poteva recarsi ovunque volesse. Ci racconta anche che per andare in trincea doveva ovviamente affidarsi a dei soldati, ma il tutto avveniva in maniera meno protocollata di quanto si pensi.
Le pressioni giornalistiche
Come inviato di guerra Luca Steinmann sottolinea due aspetti che lui reputa fondamentali: il primo sono le pressioni che possono arrivare in maniera diretta o indiretta da casa, il secondo aspetto è quello dell’autocensura. Il giornalista che fa l’inviato in zone di guerra sa che può essere osservato, sia da casa che dai soldati che operano nei territori, e si crea una situazione tale per cui le persone con cui il reporter si trova ad avere a che fare, le sue fonti, possono diventare strumenti di pressione su di lui. In base alle sue pubblicazioni il giornalista sa che queste persone possono subire delle ripercussioni, non c’è solo la veridicità del racconto ma ci sono anche le conseguenze che questo può avere sulle persone che risiedono lì.
E’ possibile che il lavoro di un reporter possa andare a rovinare la vita di qualcuno, per questo il saper bilanciare è un aspetto molto delicato. Bisogna riuscire a raccontare ciò che si vuole ma al contempo essere anche a posto con le persone che ci hanno aiutato.
Su questo Luca Steinmann non ha una ricetta universale da fornirci ma ci dice che continuando a frequentare i territori in guerra si crea nei confronti del giornalista, da parte delle persone e delle autorità del posto, una sorta di fiducia e di rispetto. Nel momento in cui questo rispetto cresce diventa molto più facile farsi accettare dalle autorità del posto, diventa più facile difendere la sicurezza delle proprie fonti.
Sembra scontato doverlo sottolineare, ma fare il proprio lavoro in maniera più corretta possibile diventa il modo migliore per difendere la validità delle proprie fonti.
Le motivazioni russe
Possiamo senza dubbio affermare che finora la complessità di questo conflitto non è stata raccontata nella maniera più giusta e corretta. Nel Donbass ci si trova di fronte ad una popolazione divisa tra chi vuole vivere sotto i russi e chi preferisce invece vivere sotto gli ucraini. Dobbiamo tenere a mente che la guerra in Ucraina è certo un conflitto internazionale, ma anche una guerra civile che ha spaccato la popolazione ucraina, soprattutto quella del Donbass. A determinare questa spaccatura così profonda sicuramente la lingua e la cultura giocano un ruolo importante, ma ciò che determina le preferenze politiche sono i vissuti delle persone in relazione a questa guerra ed è proprio questo che Luca Steinmann vuole farci capire.
Il quesito che tutti noi ci poniamo è che cosa spinga migliaia di ragazzi russi a combattere per Vladimir Putin. La risposta non è univoca, dobbiamo sforzarci di comprendere che i russi hanno una grande fobia, quella che il proprio sistema possa collassare. E’ forte la memoria collettiva russa che nei primi anni novanta vide il proprio mondo, l’unione sovietica, crollare completamente. Tutto questo ha dato vita agli anni ricordati come i più umilianti nella storia di questo popolo e la maggioranza dei russi non è disposta ad accettare che la Russia possa cadere nuovamente, che rischi di essere umiliata e smembrata una volta ancora. L’adesione al sistema di potere di Vladimir Putin è vissuta come un passaggio necessario, una sorta di veleno da bere in silenzio pur di avere salva la sopravvivenza della patria. Tutto questo è in grado allora di spiegare quel forte senso di appartenenza e patriottismo che lega il popolo russo, nonostante pochissimi pensino che si tratti di un buon governo. Putin ha bisogno di dire al suo popolo che l’operazione speciale è servita e che le tante morti hanno contribuito a salvaguardare la dignità della Russia e a scongiurare la possibilità del collasso e fino a quando la Russia non avrà ottenuto tutto questo non si fermerà.
Il massacro dei palestinesi
Il libro di Luca Steinmann non affronta solo il conflitto russo-ucraino ma indaga e testimonia la realtà di tante altre guerre, come quella che ora imperversa in Palestina e che si sta classificando come uno dei conflitti più sanguinosi, con un livello di violenza disumano che Israele sta esercitando sul popolo palestinese. Riportiamo le parole di Steinmann al riguardo:
“Penso che Israele sia di fronte ad una grandissima crisi d’identità e che questa guerra lo esprima. Alla domanda che cosa sia effettivamente Israele non c’è una risposta univoca, posso solo dire che questo stato era nato con la volontà di garantire che le ingiustizie ed il genocidio subito non avvenissero più. Questa è la radice su cui si fonda lo stato e che accomuna così tante identità diverse: lo stato di Israele come garante che le persecuzioni non avrebbero più avuto luogo. Per questo il 7 ottobre non è stato vissuto dal popolo israeliano, perdonatemi per quello che sto per dire, come un massacro “identico a tutti gli altri”, ma è proprio la percezione che l’autorità nata allo scopo di evitare tutto questo non sia riuscita a compiere il proprio dovere“.
Il nemico sionista
Si tratta di un punto fondamentale da capire per entrare nell’ottica di Israele, le guerre che sempre ha combattuto sono diventate identità del loro essere, guerre ininterrotte dal 1948 ad oggi, il cui obiettivo era sempre lo stesso: scongiurare che gli attacchi si ripetessero, eradicare il terrorismo, l’anti-semitismo.
Quello che a questo punto dobbiamo chiederci è se veramente è possibile arrivare alla sconfitta del terrorismo. La risposta negativa ci sembra quasi scontata, l’unica costante che ritroviamo è la forte memoria nel popolo ebraico delle stragi vissute e delle violenze subite che sono ormai diventate parte delle identità personali e collettive, non solo di chi le ha vissute in primis ma anche dei discendenti e delle comunità. Su questo nasce la volontà di riscatto e giustizia che Israele continua ad addurre come scusa per giustificare le violenze inaudite di cui si sta rendendo protagonista. I massacri a cui stiamo assistendo sono un motore che non si spegne mai: Israele cieco nella sua folle sete di vendetta non si ferma e questo alimenta un odio verso il popolo ebraico stesso che non è destinato a trovare una fine. Per volontà di Israele stesso abbiamo assistito e stiamo assistendo ad una mobilitazione dei paesi arabi che fino ad ora non c’è mai stata. Il nemico è tornato ad essere uno solo, quello di sempre: lo stato sionista.
Si conclude l’incontro con una precisazione importante: dobbiamo tenere a mente che fino ad ora non c’è stato nessun regime arabo che abbia fatto qualcosa di concreto per i palestinesi di Gaza. Quanti regimi hanno davvero accolto ed aiutato i palestinesi provando a costruire un loro stato? Il dito va puntato contro tutti, parole buttate al vento che parlano di difesa e pace ma che mai sono diventate qualcosa di concreto. La nostra speranza è che le violenze e le guerre cessino al più presto e che il martoriato popolo palestinese soprattutto nel territorio di Gaza possa trovare la pace . La nostra speranza si ritrova però a dover fare i conti con una realtà che sempre di più puzza di sangue innocente.
