Mauro Mandrioli Passaggi Festival 2021

Si apre la quarta giornata di Passaggi Festival con la rassegna “Buongiorno Passaggi. Libri a colazione”. Protagonista dell’incontro è stato Mauro Mandrioli con Nove miliardi a tavola (Zanichelli). L’autore ha conversato con la giornalista Elisabetta Rossi. Il libro di Mandrioli tratta il delicato tema dell’agricoltura, o meglio, di come rendere più sostenibile ed efficiente un’agricoltura che si troverà a dover sfamare l’astronomica cifra di nove miliardi di persone nel vicino 2050.

Ripartire con più consapevolezza

Bisogna ripartire dalle basi: ridisegnare quello che mangiamo e coltiviamo, con un occhio più critico ed attento per evitare sprechi e garantire la sopravvivenza dell’intera popolazione.
Il mezzo più potente di cui disponiamo è la tecnologia. Con telecamere a infrarossi e droni possiamo valutare la salute delle piante nei campi. Squadre di robot agricoli e sistemi automatici usufruiscono di questi dati per distribuire acqua, fertilizzanti e fitofarmaci solo alle piante che ne hanno bisogno. Dunque una tecnologia a sostegno di un’agricoltura di precisione. Già solamente così, ci spiega Mandrioli, otterremo un risparmio delle risorse dal 30 al 70 per cento.
L’agricoltura italiana è però vittima di un triste paradosso: in Italia sono pochi i campi coltivati con una tecnologia 4.0, ma ci sono moltissime aziende italiane che producono tecnologie innovative. Il problema dunque consiste nell’applicare le armi e le risorse di cui disponiamo.
Al fianco della transizione tecnologica (cioè, come appena detto, del bisogno di applicare le tecnologie disponibili sul territorio) si è parlato anche di transizione generazionale. Negli ultimi anni è avvenuto passaggio di testimone da agricoltori anziani ad agricoltori giovani, c’è stato un boom di iscrizioni a facoltà agricole-agrarie. È necessario ormai mettere nei campi persone più familiari con la tecnologia, al fine di ottenere cambiamenti visibili.

Il biologico che inganna

È in corso ormai da decine di anni un processo per il miglioramento della sostenibilità. Bisogna partire con il dire che “non esiste il biologico puro, anche nell’agricoltura biologica vengono usati fertilizzanti e pesticidi”. La differenza sta nel fatto che l’agricoltura biologica non utilizza la chimica e rifiuta a posteriori gli OGM, scelta non proprio felice secondo Mandrioli. Il biologico può essere una soluzione efficace per alcune aree, ma è sbagliato pensare di fare solo agricoltura “biologica”. Affermare che la soluzione per l’ecosostenibilità passi esclusivamente dal biologico significa dare adito ad una scuola di pensiero sbagliata. Sarebbe una sfida persa.
Esistono tante soluzioni e strumenti diversi, adatti alle più disparate tipologie di campi e di colture. L’autore condanna l’agricoltura biodinamica, una modalità di coltivazione dei campi che non ha una vera e propria base scientifica. L’agricoltura biodinamica consiste in un insieme di pratiche pseudoscientifiche basate su una visione spirituale del mondo. Lo scopo di chi abbraccia questo sistema di credenze vorrebbe essere il raggiungimento di una agricoltura più in equilibrio con l’ecosistema terrestre. Essa incorpora anche alcuni dettami dell’omeopatia e alcune tecniche dell’agricoltura biologica.
“L’agricoltura biodinamica è come andare dal dottore e chiedere una cura in base al proprio segno zodiacale. Certamente si può fare, ma ha poco senso e non garantisce alcun risultato”.

Un utilizzo intelligente delle risorse

Dobbiamo partire dall’idea che i sistemi di agricoltura sono tutti sistemi artificiali, la biodiversità è sicuramente compromessa nei campi destinati alle coltivazioni. Si devono ridurre i danni in un’ottica di compromesso.
Per garantire dei buoni risultati non è utile bandire completamente insetticidi e fertilizzanti. L’idea è usare gli insetticidi quando servono e dove servono. In Francia ad esempio è sempre piaciuta l’idea di togliere gli insetticidi dai campi, solo che così facendo si sono trovati l’8% delle barbabietole rovinate dagli afidi. In occidente potremmo consumare e produrre meno, con un occhio particolarmente attento ad una zootecnica e ad un’agricoltura meno intensiva. Ciò però non vale per molte nazioni africane e, in generale, per tutti quei paesi più poveri. La sfida è rendere disponibili le tecnologie per aiutare i paesi arretrati a continuare ad essere produttivi. L’Europa e gli altri non possono girare la faccia. Nei paesi poveri servono nuove varietà, insetticidi più economici e ad impatto più basso, dobbiamo aiutare lo sviluppo della logistica e della tecnologia.

OGM: un grande sì?

L’autore ha poi affrontato una tematica che negli ultimi anni ha scosso e diviso l’opinione pubblica: quella degli organismi geneticamente modificati. In Italia e in Europa ad esempio sono banditi gli OGM, ma ciò non impedisce che essi vengano importati da altri paesi. Vanno innanzitutto evidenziate e capite le differenze tra gli OGM di oggi e quelli sviluppati nei primi anni ottanta. Complice una ricerca scientifica non ancora arrivata al suo punto di massimo, nei primi tempi erano state fatte scelte “non proprio felici”.
Costruire nuove varietà di piante costava molto e dunque se ne producevano poche ma in grandi quantità. Oggi usare la genetica significa costruire in laboratorio le varietà che ci servono, con la possibilità di creare modifiche estremamente precise. Tante varietà specifiche in maniera economica dunque.
Ad oggi la genetica rende l’agricoltura veramente “local”, si parla di “mutazioni assistite”. Ci sono perplessità legate all’uso della genetica in agricoltura, si ha l’idea che ciò che mangiamo non debba assolutamente essere frutto di uno scambio genetico, ma in realtà ci sono sempre state tecniche di miglioramento genetico, anche se grossolane. Gli OGM non provocano assolutamente problemi per la salute umana o per quella animale. Peccano solamente di tracciabilità: le modifiche attuate sono così precise che non riusciremo più a distinguere tra una varietà modificata ed una naturale. Per assurdo queste metodiche funzionano troppo bene.

Fattorie verticali: l’agricoltura che nasce nelle città

L’ultimo punto affrontato è stato quello delle cosiddette “fattorie verticali”: entro il 2040 il 70% dei cittadini vivrà nelle città e ciò implica che si dovrà rinunciare ad almeno un 2% dello spazio dell’agricoltura per fare spazio alle città. Avremo meno spazi per produrre. Ed è qui che entrano in gioco le fattorie verticali, strutture situate all’interno di edifici che vengono costantemente monitorate e dove verdure e ortaggi potranno crescere tutto l’anno e a kilometro zero. Rispetto ad un campo all’aperto, per coltivare un chilo di pomodori risparmieremmo 65 litri d’acqua.
Si potrebbero ricavare varietà di piante che nei campi non si riuscirebbe a produrre, creando ambienti artificiali in cui esaltare una certa proprietà. Sul nostro territorio abbiamo pochissimi esempi di fattorie verticali, sono costose e in Italia ancora non se ne ha grande necessità. La fattoria verticale più grande del mondo sta nascendo a Dubai, permettendo ad intere zone desertiche di diventare produttive.

Saranno quindi la genomica, l’automazione e le sperimentazioni a guidare la nuova Rivoluzione verde. Solo così potremo mettere tutti a tavola e garantire un’alimentazione sostenibile e di qualità.

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