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di Juan Javier Bolaños

 

Traduzione: Francesca Pisano

Se dovessi scegliere uno solo tra i miei numerosi ricordi d’infanzia, senza alcun dubbio sceglierei i sogni.
Se potessi scegliere quali momenti della vita ricordare limpidamente, momenti per i quali gli ingranaggi della memoria non sono più fluidi a sufficienza, senza dubbio, sceglierei ancora una volta, i sogni. Pero’ non sogni qualsiasi. Sceglierei soltanto quelli in cui, senza curarmi di quel peso terreno che ti obbliga a pensare che senza
orientamento non puoi arrivare alla meta, ero solito perdermi sognando feste in maschera.

Venivo catapultato in un sentiero, fra siepi di diversa altezza che formavano un labirinto, attraverso il quale un fiume di umanità giocava a nascondersi. La musica, con violino e sassofono protagonisti, facevano da sottofondo. Vedevo coppie ballare e quando iniziavo a capire ciò che realmente cercavo, una sensazione di sorpresa mi assaliva alle spalle facendomi svegliare. L’effetto onirico mi mantenne in uno stato di benessere grazie al quale non provai mai la necessità di sottomettermi al giogo della droga, almeno durante l’adolescenza.
Solamente più avanti nel tempo, finito il liceo, riuscii a capire cosa davvero stessi cercando in quei sogni.

In uno di essi, camminando per una strada, giunsi in una piazzetta illuminata da candelabri di bronzo, dai quali si propagava una luce che colpiva una fontana e dove la folla si fermava ad ascoltare “Parlez moi d’amour” suonata a fisarmonica. Ognuno di loro indossava come parte del costume pezzi di pelle sotto forma di una maschera che nascondeva o meno le guance, regnava una gran varietà di travestimenti, di maschere in cuoio: alcune con sembianze di animali, altre piccole e rotonde sprovviste di decorazioni e che lasciavano intravedere il contorno del viso. Una di esse aveva una specie di barba appuntita sotto al mento e la bocca scoperta consentiva di bere o mangiare senza rimuoverla.

In quegli anni, la mia vita era un continuo interrogarmi su ciò che avrei dovuto studiare. Ero indeciso se diventare un “artista” o un “creatore”. Desideravo rendere tangibile l’immaginazione, in qualche modo rendere palpabile un’idea e fu grazie alla maschera che più mi colpì tra quelle sognate, che riuscii a prendere una decisione in merito. Era una maschera di cuoio nero, con il contorno delle sopracciglia molto marcato che delimitava due occhi a forma di occhiali da aviatore ed un naso lungo che somigliava al becco di un tucano e che, per via della sua lunghezza, copriva il resto del volto. Stimolato da una curiosità crescente, cercavo di avvicinarmi ad essa, ma il cammino sembrava infinito e come se non bastasse tutto questo accadde quando iniziai a pormi
un quesito durante il sogno. Sono convinto che con l’avanzare dell’età, perfino nei sogni di feste in maschera si
possano trovare l’orientamento, la propria bussola. Sono solito non riporre fiducia in coloro che cercano di nascondere dietro un viso freddo, impietrito, o dietro un sorriso forzato le loro vere emozioni. Tuttavia, devo riconoscere un tocco artistico in questo modo di essere, un qualcosa di teatrale. Credo che anche il gesto più insignificante sia degno di essere osservato ed analizzato.

Negli anni in cui ebbi questi sogni, non esistevano tutti i mezzi di cui disponiamo oggi per risolvere i nostri dubbi. Le biblioteche erano piene di curiosi, di studenti, di persone che si fingevano tali e di studenti che finivano per trasformarsi in vagabondi. “Buongiorno. Ha qualche libro sulle maschere?” domandai. “Cerca negli scaffali dei libri di “feste” mi risposero. Le migliaia di scaffali dedicati a questo tema non suscitarono la mia curiosità perché
sentivo di aver messo in discussione il mio prossimo futuro. Trascorsi quasi due settimane leggendo gli indici dei libri sulle feste storiche della cultura Inca, Azteca, Greca e Romana finché, come spesso succede, un bibliotecario si affezionò a me ed alla mia perseveranza. “Cosa cerchi esattamente?” domandò. “Cerco informazioni su una festa in maschera” risposi. Si diresse verso uno degli scaffali, scomparve alcuni istanti e mi portò un libro. “Forse questo ti sarà utile”.
La maschera del medico della peste. Questa era la risposta. “Dovrò studiare medicina”, mi dissi. Però, “se diventassi medico perderei molto della mia vena artistica”, pensai.

Come ho detto, nutro tuttora sfiducia verso le maschere quotidiane che le persone sono solite indossare. Tuttavia, la maschera del dottore della peste mi fu utile per capire che lui la indossava non solo per proteggersi dal contagio da parte dei suoi pazienti, ma anche per evitare di contagiare i pazienti stessi. Non era il suo proposito iniziale, ma grazie ad un artificio, la maschera, un’opera d’arte, evitava di contagiare i pazienti con
qualsiasi altra patologia. Il dottore della peste, inconsapevole, fu il pioniere della protezione fra medico e
paziente. Questo innegabile precursore della maschera chirurgica odierna si utilizzò sin dai tempi della piaga di Giustiniano e forse non ottenne mai il giusto riconoscimento, per il fatto di essere stata parte della divisa di medici considerati di seconda categoria. Neppure il medico della peste più famoso, Nostradamus, riuscì a predirne l’incredibile successo che avrebbe avuto.

Se dovessi scegliere un ricordo della mia infanzia, sceglierei proprio quei sogni di feste, quando conobbi la maschera del medico della peste. Utilizzarla più spesso ci permetterà di avvicinare sempre più l’arte con la medicina.

 


 

Juan Javier Bolaños è nato a Lima-Perù, si è poi trasferito in Spagna dove si è specializzato in Anestesia e Rianimazione. Ha presentato la prima edizione della sua prima opera, “Tomas-IN”, a Lima e a Barcellona (2018). Grazie al successo della prima edizione ha deciso che la seconda (pubblicata nel 2019) avesse una finalità sociale. Per questa ragione ha devoluto alla Fondazione internazionale “Josep Carreras” –Istituto di Ricerca contro la Leucemia- tutti i proventi derivati dalla vendita di questa seconda edizione. In tal modo “Tomas-IN” unisce letteratura, medicina e impegno sociale.
Ha partecipato all’antologia “Diciannove storie mediche sulla pandemia” progetto che ha riunito 19 medici per scrivere storie sul COVID-19 e che è stata presentata alla Fiera Internazionale del Libro di Lima 2020. A breve, la sua prima storia in italiano sarà presentata nel libro “Da un’avversità nasce un’opportunità”.

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