cancello-storia-hayduke

di Tamar Hayduke

 

– I –
La porta, il portone, il cancello.
Esce da casa. La sinistra è la direzione del mare. Per strada non c’è nessuno. Esce e guarda verso sinistra e si chiede: se avesse la possibilità di riposizionare gli occhi, da quale punto d’osservazione sceglierebbe di scrutare la strada e il deserto intorno?
Da dove si trovano naturalmente i suoi occhi, lo sguardo andrà a imbattersi nella mascherina del primo passante. La gente che esce da casa in questi giorni indossa delle mascherine e le mascherine non sono una gran cosa da vedere.
Sposta gli occhi in basso all’altezza dei piedi, e inizia a vedere il cielo più lontano e più vicino il vapore che dalla terra sale in su. Vede erbe che spuntano da crepe, tante. Oggetti caduti e lasciati lì: una patata dalle dimensioni piccole,che sembra avere un’espressione precisa, un’emoticon con le rughe, sarà stata abbandonata da un po’. Sotto l’albero, un documento, un foglio A4 in una custodia trasparente, potrebbe essere una delega.

Inizia poi a pensare a lui, all’uomo che conosce poco. Che scarpe aveva quella volta in cui erano usciti? Non ha fatto caso. Non sa neanche che tipo di scarpe indossa abitualmente. Lo conosce molto poco. Conosce la voce, il timbro, sa appena intuire il temperamento e catturare i mutamenti di tono mentre ragiona e quando ride. Ha familiarizzato un po’ con l’accento, che a volte cambia. Parlano al telefono, e a volte, quando gli capita di inciampare in un ricordo, il suo accento cambia…
Ecco, se dovesse con lo sguardo seguire i passi dell’uomo, che di recente occupa un posto nelle sue attenzioni, che genere di passi avvisterebbe? Come si muove lui nello spazio e tra gli spazi? Che direzioni prende? Come le prende? Quanti ritmi alterna? E con quale agilità? Sa solo che gioca a scacchi.
Lo conosce da poco e come sempre, come è abituata a fare, vorrebbe che il tempo non fosse un elemento che conti. Vorrebbe che il tempo fosse costantemente quello del dunque.

Continua a camminare. Si chiede, se spostando gli occhi questa volta al livello delle spalle, sulle spalle di lui che peso scorgerebbe? Quello degli anni già vissuti? O quello ipotetico degli anni a venire? E poi, sarà un peso portato consciamente? Oppure sarà adagiato lì e dimenticato per trascuratezza? Ci sarà della forfora sulle sue spalle? Ha molti capelli lui e sono anche belli, ma aveva la forfora sulle spalle quella volta in cui erano potuti uscire?

Arriva al secondo incrocio. Per attraversare chiude gli occhi e sente soltanto il cinguettio di un pettirosso e due cani che abbaiano, probabilmente senza l’intento di comunicare niente. Apre gli occhi e attraversa. Due macchine dei carabinieri davanti all’albergo. Loro non ci sono, le loro due macchine e basta. Il sale nell’aria è più fitto adesso, lo sente con la faccia.
Sposta lo sguardo all’altezza della vita, è quella di un bambino di 6 anni. Cosa vedono gli occhi di un bambino di 6 anni? Tasche, vedono le nostre tasche… Quel che portiamo appresso, quel che ci spetta avere sempre indosso: le chiavi, il simbolo dei possedimenti, il cellulare con tutte le cronache dentro e i contatti, tessere di fedeltà e di conti vari e infine, la carta d’identità. Un bambino di 6 anni inizia a domandarsi, dicono, sulla propria identità.

Lei pensa ancora a lui, all’uomo che di recente, nell’isolamento, le fa compagnia. Che cosa avrà lui nelle tasche? Erano gonfie le sue tasche, come sono gonfie le tasche dei maschi che portano i jeans? Ma portava i jeans lui quella volta? A lei i jeans non piacciono, specie quelli che si comprano già consumati. Come sarà poi la sua foto sulla carta d’identità? Che espressione avrà l’immagine che rappresenta la sua identità? Sorride.
Passa un signore in bici. Ha la mascherina sul collo. In bocca, una sigaretta. Non sorride. Stanno alla larga e l’attimo, che gli serve perché si dimentichino l’uno dell’altro, dura di più, più di quel che poteva durare prima del distanziamento sociale. Sulla spiaggia non c’è nessuno. Le onde fanno quel bianco a strisce e le strisce fanno rumore. Anche il rumore dura, resta un po’. Il sole si appoggia e lei lo prende; la vitamina D, in tempi di restrizione e di sospetti, è una bellezza di quelle necessarie.
Inspira, raccoglie i riflessi frantumati di raggi che scaldano, ma poco. Li vuole portare dentro e poi portare a casa, dove i muri sono bianchi e le tende anche, e dove le porte, a parte quella d’ingresso, sono bianche e sono solo tre.

E ancora in giù. Che cosa accade al mondo giù, all’altezza delle ginocchia? A 50 centimetri sopra il livello dell’asfalto? Lì ondeggiano le buste della spesa e quelle da spazzatura, si curvano i guinzagli dei cani e le code di alcuni. All’altezza delle ginocchia, si sentono più distintamente anche le intenzioni delle ruote.
Domani può andare a fare la spesa. Spendere non è affatto difficile. Per vendere, invece, soprattutto qualcosa di non essenziale, bisogna trovare i modi. Lei vende, come tutti gli altri, vende il suo tempo che impiega normalmente a creare “cose”, a quanto pare, non essenziali.

A delle altezze occulte, si trovano vite inosservabili. Sotto la sabbia e in fondo al mare, un buio vago e mondi altri per i quali le manca il vocabolario…
Volta lo sguardo in su. Le nuvole sono belle perché passano, e fanno dal cielo quella cosa che si può vedere soltanto quella volta, per una sola volta. Quando non ci sono nuvole nei cieli di giorno, il momento è un momento qualsiasi di un giorno qualsiasi. Il cielo di giorno senza nuvole addosso, così uniforme e statico, si rivela come lo sfondo di un’esistenza tediosa. E la città, il paesaggio, avvolti in un cielo di giorno senza nuvole, sono la scenografia di copioni e di drammi che possono essere risparmiati, muti per sempre al racconto.

L’orizzonte, dove il mare sembra tagliare la fine, è una linea. Quella linea la spinge a restare dove sta. Sente la spinta. Vuole restare, per attraversare il tempo fino al tempo del dunque.
È ora. Tre incroci e rientra a casa. Le strade sono deserte e nessuno vi grida…
Lo sguardo, il suo, la incontra per un istante dal lato opposto. Si trova a guardarsi e vede l’inizio di una lacrima e l’inizio di un sorriso. Dura poco.
E poi: il cancello, il portone, la porta.

– II –
Prima la porta, poi il portone e il cancello. Esce. Oggi farà la spesa.
La sinistra è la direzione del mare. Lei gira a destra. Qui, alla fermata sulla Nazionale, aveva salutato il suo ultimo amore. Ora a passarci vicino, si ricorda della penultima volta in cui si erano visti. Ridevano. Alla fermata lei si era messa a inventare una storia su loro due e la storia faceva ridere e loro, come al solito, ridevano. Stavano bene insieme.
Non coincidevano le età. L’esistenza sua era iniziata prima. Alla nascita di lui, lei sapeva già leggere l’orologio, conosceva tre alfabeti, si esercitava con le tabelline e coltivava amici e pareri.

Era in estate, il primo giorno d’estate. Al compleanno della cugina, si era presentato un momento cruciale, quando lui, in un modo così elegante, aveva utilizzato l’indicativo presente del verbo “volere” con subito dopo un imperativo… Era l’inizio di una parentesi che s’interponeva nelle loro vite. All’interno di quelle parentesi,erano pari e adolescenti.
Alla fermata, quella volta, lei raccontava una storia inesistente, per alleggerire l’impatto dei conti che si iniziavano a fare. Era passato l’autunno e un po’ d’inverno anche, e le parentesi incominciavano a rivelarsi permeabili. Stavano ancora bene,e gli autobus si potevano ancora prendere. Ora invece no, le nuove misure escludono gli spostamenti e loro, comunque, dalla volta successiva a quando ridevano alla fermata, non si erano più sentiti. Le età non coincidevano.

Le strade sono spoglie da ogni movimento. Il silenzio ha dileguato il rumore di traffico che una volta ammantava costantemente la zona. Il rosso del semaforo non dispiace per niente, anzi, con questo sole al semaforo rosso ci si ferma più che volentieri. Non si ha nessuna fretta e non c’è da raggiungere niente, se non un orario più avanzato della giornata. Sono giorni insoliti… A pensarci, al semaforo si ricava quell’istante in più di comprovata assenza da casa. Attraversare è un concetto piuttosto metaforico quando l’emergenza è epidemica! Nessuna macchina sulla destra e nessuna sulla sinistra; sei tu, il rosso del tuo semaforo, il verde del loro, e loro che non ci sono, il sole e le strisce pedonali. Attraversa e pensa ad Abbey Road! Se ci fossero altri tre almeno… non necessariamente sulle strisce, ma da qualche parte nel campo visivo, almeno!
“Because the wind is high it blows my mind” e pensa a Beethoven…

Le foglie lassù hanno un fruscio prolungato. Si sentono i rami anche e le superfici dei tronchi, quelle dei pali elettrici, dei raccogli rifiuti. Nell’aria esanime senza ronzii né grida, iniziano a sussistere, or ora, superfici una volta mute e inesistenti.
Sulla pista ciclabile scivola una bicicletta col manubrio libero. Il ciclista è impegnato a sistemare la chiusura dello zaino. Ha una mascherina di quelle avanzate. La mascherina ha il filtro. Fino ad oggi, per lei, accostare queste due parole non era pensabile; presumere un filtro e una mascherina in un blocco unico le poteva sembrare forzato. Poteva perfino opinare che le due cose fossero intercambiabili. Ma evidentemente non è così, o almeno non è solo così.
E da quando si è introdotta la distanza di sicurezza, quella di un metro, filtro e mascherina viaggiano preferibilmente insieme.

E ripensa a lui, al ragazzo che ha conosciuto bene. Lei lo vedeva, eppure non ricorreva a delle mascherine per proteggersi dalle loro differenze. E non lo filtrava, se non con la grata del suo sogno…
Dalle vetrine, i manichini sembrano guardare lei, sembrano valutare lei; così come i passanti, una volta, guardavano le vetrine e valutavano i manichini e le allusioni dei manichini. Le vetrine, senza le persone che le guadano, non hanno motivo per esistere. Lei stessa, non ha motivo per esistere senza gli altri…
E canticchia ancora: “E si tu n’existe pas, dis moi pour qui j’existerais?”

In piazza si sente la radio a un volume altissimo. Alza lo sguardo, sul davanzale di una finestra chiusa al quarto piano scorge uno stereo nero che trasmette, a chissà chi, un’intervista. Si parla di virus, di contagi, di statistiche e di responsabilità. Alle finestre non c’è nessuno, neanche sui balconi. Abbassa lo sguardo.
È una settimana che non sente né sapori né odori. Ha perso del tutto il gusto e l’olfatto. Il suo medico sostiene che possa essere un segno di stress. Sui notiziari invece, se ne parla come di un sintomo. Lei non lo sa, non ha la febbre, non tossisce. Sa solo che i sapori esistono quando esiste chi li sa sentire. Cavoletti di Bruxelles. Sono amari, non le sono mai piaciuti. Ora che non sente, può approfittare per godere del loro aspetto simpatico e delle loro proprietà antiossidanti.

Paga e riprende il tragitto. In piazza, la radio ha smesso di annunciare previsioni.Il semaforo è verde e il vento continua a suonare superfici scoperte. Alla fermata sulla Nazionale, le ombre di due che ridono di una storia inesistente che fa ridere.
Oggi è il primo giorno di primavera. Gira a sinistra. È arrivata.
Il cancello, il portone, la porta.

– III –
La porta. È inchiavata… perché? Gira la chiave, e poi, portone e cancello.
Non deve uscire. Non andrà da nessuna parte. Si mette semplicemente sul gradino per stare al sole. Il villino davanti è dipinto di azzurro. Ha due finestre murate. Che cosa ci sarà sul muro, dall’altra parte del muro, della finestra murata?

Il viale è alberato e su un palo, che si appoggia sull’ultimo degli alberi, c’è un segnale, e visto che è rosso, lo si può ancora scorgere tra i rami. Un segnale di Stop. Fermarsi e dare la precedenza. Fermarsi comunque per dare eventualmente la precedenza… La sua coinquilina, di notte, continua a chiudere la porta a chiave. Anche adesso, in quarantena, mentre tutti, compresi eventuali sospettabili ed aggressori, devono stare e stanno a casa, la coinquilina, di notte, inchiava comunque la porta…

Era il quinto dei pianeti quello del lampionaio? Sì, il quinto pianeta che il piccolo principe visitò era quel pianeta minuscolo dove c’era giusto lo spazio per un lampione e il lampionaio! e c’era la famosa “consegna”, l’ordine di spegnere il lampione quando è giorno e riaccenderlo quando è notte. E il pianeta minuscolo che col tempo aveva preso a girare velocemente e che compiva già il suo giro in un minuto solo e la consegna che non era stata cambiata lo stesso e il lampionaio che continuava a spegnere accendere accendere spegnere senza mai avere un attimo di riposo eccetera eccetera…

Ecco, questo pensa, pensa ai millequattrocentoquaranta tramonti e poi pensa alla casa dei suoi sogni, ovvero, alla casa dove sono ambientati i suoi sogni…
Una casa prefabbricata. È di ultima generazione, ma senza un sistema di allarme. In mezzo al verde, con davanti una distesa d’acqua, preferibilmente dolce, un lago. Le pareti hanno uno strato isolante, di lana forse, sono calde. Sul soffitto c’è un raccoglitore di acqua piovana e dei pannelli solari. Una casa effimera che resiste soltanto 60 anni e poi gli strati si riciclano e il terreno lo si lascia respirare.
60 anni di acqua piovana, da usare per pulire i pavimenti e per appianare eventuali dislivelli di vedute, tra persone che vivono insieme e che si amano anche…
60 anni di sole assorbito per continuare a dare vita a quella morbida “nuvola” dove si dorme bene, e per caricare poi il computer e fare andare il frigo e i lampadari, di cui la sera se ne accendono solo 2; la tanta luce di sera non le è mai piaciuta.

Il sole splende e le fa bene. In aria si sentono versi di creature altre che abitano spazi intorno, isolati, ma uniti comunque sotto lo stesso cielo, detto anche il firmamento…
Chissà quanto durava un giorno di Creazione ai tempi della Genesi?
Si alza. Rientra.
Il cancello aperto. Il portone. La porta.


Tamar Hayduke è un’autrice e performer armeno-siriana. Vive in Italia dal 2008 e negli ultimi anni si è stabilita nella città di Pesaro. È nata ad Aleppo-Siria nel 1981 in una famiglia armena. È laureata in giornalismo presso l’Università Statale di Yerevan, Armenia.
Si occupa di comunicazione e pubbliche relazioni. Produce contenuti editoriali e multimediali.
Nel 2015 ha pubblicato il suo libro di poesia “OGGI” con Numero Cromatico Editore. Nel 2018 ha vinto il 1º premio, narrativa stranieri, del concorso ‘La Donna si Racconta’.

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