prato-storia-spera

di Silvia Spera 

 

E’ arrivato il momento, sente pronunciare il suo nome, le mani di un ragazzo sorridente con gli auricolari
scostano il tendone per lui, forse ha percepito le vibrazioni del suo tremare, ma invece le gambe a condurlo
fin sul palco devono per forza essere le sue, senza aiuti di arti altrui.
E’ stata una sorpresa ricevere quella telefonata da una giuria che lo invitava al ritiro del premio, una piccola
cerimonia non si preoccupi, e un breve servizio nella sezione cultura del TG3, aveva detto la voce al di là
della cornetta, riagganciando.
Una di quelle emozioni che ti toglie il fiato, gli era successo solo quando gli avevano immesso litri di acqua
in gola con l’imbuto, senza lasciargli tregua.

I volontari dell’organizzazione umanitaria locale che gli offre un letto e un piatto caldo lo hanno iscritto,
mesi fa, al concorso letterario di poesia, a sua insaputa. Marta pulendo, come ogni sabato, aveva trovato un foglio stropicciato in terra, sotto l’ultima branda, e senza saperne il motivo, invece di gettarlo via, insieme ai rifiuti già accumulati dagli altri stanzoni della zone notte, si era soffermata a leggerlo. E subito era corsa da Alessandro, il capo del 95, come lo chiamavano, per istinto, così, sentendo di avere tra le mani una cosa preziosa. L’autore della cosa preziosa viveva al Binario 95 della stazione Termini da cinque anni ormai, in mezzo
all’incurante splendore romano, si sentiva amato e i ragazzi dell’associazione che lo ospitava non solo lo
avevano accolto, rimesso in forma e inserito in un colorato gruppo di umanità varia e stimolante, ma gli
avevano trasmesso un po’ del calore e della fiducia in se stesso, che aveva lasciato, e credeva perduti per
sempre, a Lomé, tra le carezze materne.

Quella fiducia in sé stessi che una mamma a cui è concesso il tempo per osservare il suo ragazzo crescere
può costruire giorno dopo giorno, con i piccoli gesti densi, con le brevi frasi appena sussurrate, con uno
sguardo dolcemente compiaciuto, mattone dopo mattone.
Già, mattone dopo mattone… il pensiero torna a quando, dopo mesi vissuti nel deserto, ha vissuto in tre
mattonelle. Questo era lo spazio concesso ad ogni prigioniero, con un compagno con cui fare i turni, uno in
piedi su mezza mattonella mentre l’altro, su cinque e un pezzetto, provava a dormire. Con i corpi intrecciati
come gemelli nell’utero di una sola madre. All’inizio nessuno lo toccava e lui, inguaribile romantico, pensava che nessuno osava toccare quel fiore bello bizzarro che aveva trovato posto sul marciapiede sbiadito.

E poi le parole sono arrivate, come un flusso che non riesci ad interrompere, come quelle gocce che cadono
dalla busta della tua spazzatura e non sai come rimediare a quel disastro ormai avviato nella tromba delle
scale del palazzo, come la polvere che le stelle seminano tra le galassie nonostante il vano tentativo del sole
di respingerla. La terra umida e odorosa tra la mani, l’alba nei campi così ordinati come solo la natura sa fare, le lacrime dei compagni, la fatica, i colori quasi immaginifici, le piccole cose che hanno grandezza dentro di loro e che ti si avvvicinano e ti sussurrano come fossero angeli o fantasmi, lo hanno reso un poeta.
I frutti seducenti dell’estate, l’esplosione di luce sui filari, le canzoni silenziose lo hanno costretto a
raccattare penne e carta dappertutto, come se fossero un terzo braccio, la sua terza mano, la sua seconda
testa e il suo secondo cuore. Quegli sguardi chini e stanchi, sempre sull’orlo del riso e del pianto. Non sono solo braccia muscolose regolate da ritmi stagionali. Tutti diversi ma parte l’uno dell’altro, chi oltrepassa le frontiere, chi sostiene chi è appena arrivato, chi produce semi e li distribuisce gratuitamente, ognuno con la sua lucida pazzia, chi si traveste da albero per sentire la terra, chi nasconde arcobaleni perché non vengano venduti, chi pittura le sirene di altri colori perché si mimetizzino e non siano esposte ai pericoli.

Quando prova a volare via con la mente per costringersi a non scrivere, con la schiena appoggiata al tronco
del suo albero, niente da fare, ci si mettono anche i ricordi, i ricordi che non lo lasciano in pace un attimo.
La moglie in attesa non solo del suo ritorno, l’universo non accetta la nostra separazione. Altera il suo
equilibrio, dicevano, ma erano stati costretti a separarsi. E le luci di Lomé, quella spiaggia in fondo alla strada, che la stringe in un abbraccio e quelle sue tombe scavate nella sabbia.
Lomé, come tante altre città, non fa sentire la sua voce se non ci si è adagiati sul suo cuore singhiozzando
almeno una volta, o se non ci si è addormentati tra le sue braccia.

Eccolo quindi sul palco, camicia di Alessandro e sopracciglia da modello, che Marta ha insistito per sistemargli, prende tra le sue mani grandi la minuscola scultura. L’uomo con il microfono, sorriso smagliante, camicia tesa sul ventre, pochi ciuffi grigi intorno alla pelata, le fede che strangola l’anulare in cui è stata infilata anni fa, gli chiede di recitare la sua cosa preziosa, e lui, fiero come un leone, voce ferma che invade l’auditorium, labbra carnose che divorano la parole:

Mi spezzo la schiena per soddisfare la tua fame, europeo
Mi sveglio, invisibile, prima dell’alba e il mio sudore vale mezzo euro a cassetta
Assaggiatore di prelibatezze dall’orto delle isole biologiche,
che vai al mercato con la tua shopper alla moda
Il mio stato liquido, senza forma, saranno baratro e voragine in cui precipiterà la tua coscienza

 


 

Silvia Spera è nata a Colleferro in provincia di Roma.
Vive a Roma da tanti anni. E’ IT Architect e matematica, appassionata di lettura, mare  e cinema.

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