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di Titti Follieri

 

Ultimamente la mia convivente mi chiama Tatitù, ma non è il mio vero nome, a volte Topolina, che proprio non mi piace. Mi fa anche il verso esclamando Miaooo! Miaooo! Ma è un appiattimento dei molteplici modi di dire la mia, perché posso piangere, emettendo un lamento da bebè infelice, quando sono nel trasportino; esprimere mugolii di piacere quando mi lascio spazzolare il pelo; cacciare degli ululati quando sto per vomitare; rispondere soddisfatta dopo aver gustato un nuovo intingolo con un suono gutturale e leccata di baffi.
Spesso mi siedo nella posizione di statua egizia ricordando alla mia cara umana che sono l’incarnazione di una Dea. Devozione è richiesta nella forma di cura continua: buon cibo sempre fresco nella ciotola, spazzolate per eliminare pelo superfluo dal mantello, carezze a richiesta quando non dormo, silenzio invece quando sogno. In particolar modo ciò che amo è ricevere baci e carezze insieme.
Allora strofinare il naso contro il naso della mia prediletta è il massimo del piacere, che mi mette in moto quel motorino speciale che risuona a ritmo continuo in tutto il corpo. Fusa non rende come suono; preferisco il francese ron-ron-ner più onomatopeico.

Quando la mia convivente si sdraia sul divano a guardare la televisione, salto sulle sue gambe che sono il mio cuscino prediletto, ma prima voglio due coccole e fare nasonaso.
Poi cerco una posizione comoda o in orizzontale sulle sue cosce o in verticale sulla lunghezza delle gambe. Ci sto così bene che posso rimanerci ore senza più muovermi, solo che Lei dopo un po’ si sposta. Mi dice che così gli si bloccano le articolazioni, che non può rimanere immobile tutto quel tempo. Mi infastidisce questa agitazione umana. Esprimo il mio dissenso con un fastidioso lamento, ma sento già le sue mani che mi sollevano, spostandomi di lato, mentre Lei va verso la cucina.
Mi sembra un’ottima idea per seguirla e per iniziare a canticchiare la mia canzoncina solita, che non è dettata dallo stomaco vuoto, ma da un desiderio indefinito, un non so bene che. Visto che Lei ha rotto l’idillio della stasi, dello stare cheek-to-cheek, qualcos’altro bisogna inventarsi. Perché non una bella spazzolata? Non si sa mai quando è la volta buona di beccare un momento tranquillo per godersi quella grattata con la spazzola magica che risveglia i sensi addormentati e tira a lucido il mio mantello tigrato.

Il fatto è che è sempre indaffarata in cucina. E’ un laboratorio permanente. Rumori di pentole e piatti, fragranze varie e poi scrosciare d’acqua per pulire fornelli e stoviglie, ma io sono all’erta specie quando mi arrivano odori di pesce che mi fanno venire l’acquolina in bocca. La mia tattica è la seguente: mentre Lei si accinge a consumare la pietanza che ha trasportato su di un tavolo basso vicino alla televisione, io mi siedo vicino ai suoi piedi e come un cane goloso reclamo il boccone d’assaggio con miagolii convinti. La guardo adorante con i miei occhi smeraldo fissi nei suoi e al mio insistere petulante Lei, alla fine, cede.

In questo periodo Lei spesso è ossessionata dalla televisione. Mi è venuta la curiosità di capire come mai. Una sera mi sono seduta anch’io lì davanti allo schermo a guardare quelle immagini che passavano veloci. Ho visto di sghimbescio lo sguardo incuriosito di Lei che osservava quel mio sedermi concentrata dinanzi al teleschermo.
Una litania incessante in nome del Coronavirus, il calvario giornaliero delle visite negli ospedali, le corsie delle terapie intensive, l’elenco del numero dei decessi dei medici e infermieri, la lista quotidiana dei contagiati, dei morti, dei guariti. Un bollettino di guerra dei caduti contro il nemico invisibile. Lei sempre più tetra eppure non perdeva un telegiornale.

A guardar bene in questi ultimi mesi Lei è sempre in casa, tranne quando le provviste di cibo stanno terminando. E poi c’è quel benedetto ripostiglio di cibo, chiamato frigorifero che è diventato un personaggio importante nella casa. Tutte le volte che chiedo qualche nuova pietanza, Lei va al frigo e ci guarda dentro. Se c’è ancora qualche avanzo della mia pappa, me lo rifila subito, altrimenti –cosa che preferisco- mi apre una nuova scatoletta. Lei mi parla sempre ad alta voce e se mi chiama, io rispondo con un tono che dice: Eccomi, sono qui.
In questi giorni mi chiacchiera di più. Sarà perché non vede più le sue amiche. Io sono contenta che non vengono in casa, così non devo fare tutti quei salti sulle gambe delle sconosciute per avere attenzione e usufruire del circuito di calda energia che le parole creano.
A proposito di frigorifero l’altro giorno l’ho sentita ridere e leggere ad alta voce un messaggio che aveva ricevuto sul cellulare:”Comunque non è detto che si debba impazzire in casa…Ne parlavo prima con il frigorifero”.
“Vedi Tatitù, – ha esclamato- Io non parlo da sola, posso parlare a te”.

Il frigo è diventato la dispensa del cibo, la possibilità di nutrirsi, il ventre materno che racchiude la nostra possibilità di sopravvivenza. Ma è anche una consolazione, un riempire quel vuoto di relazioni, il senso di impotenza di fronte a qualcosa che ti sovrasta, che non conosci, che ti impedisce di vedere gli amici, di uscire a vedere un film, o uno spettacolo a teatro. Hai perso la tua libertà: sei agli arresti domiciliari. E nella solitudine sei costretto a guardarti dentro, ad affrontare i tuoi démoni.
Il nutrimento per il corpo certo, ma lo spirito come lo nutriamo? Forse cercando nella voce delle persone amate –tramite il telefono- il segno che anche loro sono vive, scambiando sensazioni, raccontando storie passate o dei progetti ancora da realizzare, che non sai più se saranno possibili o nel presente osservando quanto la bellezza della natura ristora l’anima.

E’ arrivata la primavera che continua il suo corso infischiandosene che gli umani siano rintanati in casa. Visto che abitiamo in campagna, una passeggiata solitaria è consentita. Allora la mia compagna mi racconta:
Quassù in collina ci sono dei crinali rettilinei dove l’occhio può spaziare, un orizzonte aperto su due lati dei colli, sopra il cielo, sotto i filari contorti delle vigne marrone, i drappelli di uliveti verde scuro che con una folata di vento si colorano d’argento e le macchie giallo-rosse dei casolari delimitati dalla presenza dei cipressi, ritti come soldati in fila che fanno da guardiani del territorio, quasi mai soli, spesso in gruppo o in filari di due, come quelli di Bolgheri evocati da Carducci, “alti e schietti che vanno da San Guido in duplice filar”.
La passeggiata è valida sia per il corpo che per lo spirito. Un vecchio adagio di Giovenale dice : Mens sana in corpore sano. Trovare l’equilibrio perché entrambi siano curati e nutriti.

Per il nutrimento dello spirito Lei il pomeriggio, a volte la sera tardi, si dedica alla lettura. In casa i libri sono ovunque, in camera da letto, nei corridoi, nel soggiorno. Il suo luogo preferito per leggere è lo studio dove c’è una grande finestra, da dove si vede il paesaggio delle morbide colline, tutte tappezzate di giardini, vigne, boschetti, campi di ulivi, case sui cucuzzoli e sopra il cielo che cambia colore secondo le ore della giornata. Questo fuori. Dentro c’è un piccolo divano magico, che sorveglio perché quando Lei riceve qualche ospite, cambia forma creando uno spazio orizzontale, che diventa un posto nuovo messo a disposizione per le mie pennichelle giornaliere. Ecco, su quel divano Lei si siede per lungo con le gambe distese e io la raggiungo con il mio miagolio di assenso, prendo qualche coccola, vorrei non finisse mai, ma poi sento che il tempo a me dedicato sta scadendo. C’è un concorrente che vuole la sua attenzione, quell’oggetto rettangolare di carta, che la rapisce portandola lontano in luoghi a me sconosciuti. Per fortuna ci sono io sulle sue gambe che approfitto per farmi un pisolino e aspettare che ritorni dal suo viaggio nei mondi immaginari su questo divano, su questa terra, insieme a me.

Quando Lei va in giardino anch’io prendo una boccata d’aria e vado a limarmi le unghie ai robusti tronchetti della siepe e poi faccio uno spuntino con l’erbetta che ora è ricresciuta dopo quel giorno che Lei si è messa a tagliare l’erba con quel coso che fa un rumore infernale. Sì, odio i rumori molesti. Sono sensibile d’orecchio e scappo come un fulmine, appena Lei aziona quell’altro oggetto spaccaorecchi che è l’aspirapolvere.
Lo spuntino a base di erbetta non mi fa molto bene perché non la digerisco. Per fortuna vomito, con la voce di sottofondo che mi rimprovera “Te l’avevo detto di non mangiare l’erba, ma sei testarda e poi stai male”.

Qui in giro nei giardini ci sono i gatti dei vicini, ma oramai alla mia età non mi interessano più. C’è un gatto nero giovane che di tanto in tanto mi viene a salutare e facciamo nasonaso, poi lui riparte per i suoi vagabondaggi. Gli altri che vengono dinanzi alla porta sono solo opportunisti che vengono a mangiare i miei avanzi o a chiedere cibo alla mia convivente che si intenerisce sempre, ma loro lo fanno solo per ingordigia perché sono ben nutriti, direi ciccioni. Poi non amo gli assembramenti dei miei consimili perché da piccola mi hanno fatto dei brutti scherzi, non loro, ma i gatti che c’erano prima.
A sei mesi ero vispa, magrolina e amavo gironzolare per i giardini e di solito quattro gatti maschi mi aspettavano all’uscita appostati come banditi per acchiapparmi. Non ero in calore. Ero una nuova arrivata, una delle poche femmine integre e i maschi erano eccitati perché potevo essere un buon bocconcino, una copula facile a portata di mano.

Nel giardino vicino c’era un cipresso dai grandi rami aperti. Io ci andavo per limarmi le unghie e per provare qualche piccola arrampicata. Un giorno ero sola fuori casa e i quattro gatti mi hanno puntato e attaccato. E’ partita una corsa all’inseguimento. Correvo veloce a zig-zag e loro dietro.
Vista la mia pratica di arrampicata sul cipresso sono salita sul tronco andando sempre più su. Loro non ce la facevano a salire perché sovrappeso o perché non avevano esperienza di scalata, mentre io ero contenta per essermi messa in salvo. I quattro gatti ad un certo punto si sono stufati e se ne sono andati. Io sono rimasta sul cipresso per delle ore. Poi ho iniziato ad aver paura perché mi sono resa conto che non sapevo scendere. Ero salita per circa otto metri e ho iniziato ad aver paura miagolando come una forsennata con tutto il fiato che avevo in gola.

Quando Lei è rientrata a casa, il mio pianto dall’alto del cipresso, nel silenzio della campagna si diffondeva come se ci fossero delle casse di amplificazione acustica su tutto il territorio. Uno strazio per le orecchie. Lei non sapeva bene cosa fare. Ha preso una scala, l’ha appoggiata all’albero ma era lontana dal potermi raggiungere. Allora ha iniziato a chiamarmi, a dire :
Qui Tesoro, devi scendere su questo ramo qui” e batteva la mano sul tronco come a creare un percorso. “Dai ce la puoi fare, scendi, un passo alla volta con calma“. Ero così spaventata che non capivo nulla. Lei non sapeva quale altra possibilità ci fosse, se non chiamare i vigili del fuoco che hanno le scale mobili per raggiungere l’altezza degli otto metri. Si fermava, poi tornava sopra la scala e con voce amorevole mi indicava la strada e mi diceva di non aver paura. Se ero salita, potevo scendere e non so come quel battito sul tronco, quella voce che mi incoraggiava mi ha ricordato che avevo degli artigli, che come uncini mi avrebbero sorretto nella discesa e poi la cosa importante era Lei, li sotto, che mi voleva bene.
Così lentamente ho fatto il primo passo per scendere. “Brava! Così Brava. Qui, adesso. Qui, scendi ancora”.
E così la fiducia in me stessa mi ha spinto a continuare la discesa e non mi sembra di aver avuto bisogno delle sue braccia che mi prendessero, ce l’ho fatta da sola e una volta sul prato sono corsa in casa. Mi era venuta una gran fame.

Spesso me ne sto per i fatti miei. In casa scelgo, secondo come mi gira, una cuccia provvisoria. Lei più volte voleva comprarne una, ma poi visto il mio carattere volubile ci ha rinunciato. E’ vero che invecchiando sono diventata più capricciosa.
Ma come si fa a non accomodarsi nel tiretto di un cassettone, lasciato aperto, dove ci sono impilati tanti morbidi maglioni dentro i quali sprofondare nel profumo di lavanda? Lei ci ha provato a togliermi di lì una volta, due volte, ma io non ho mollato, quello era il mio posto. Ho solo accettato che tra me e i maglioni fosse distesa una copertina di lana arancione. Poi un altro giorno ho trovato un’anta di un ripostiglio aperto e dentro c’era una scatola di cartone con dentro costumi e asciugamani. Era un angolo della casa appartato e gli asciugami mandavano quel profumo di pulito che mi piace molto.
Ho poi inseguito i costumi e gli asciugamani in un borsone azzurro lasciato semiaperto sopra una sedia, dove Lei l’aveva abbandonato rientrando dalla piscina. Subito ho agito infilandomi dentro pensando che era un ottimo rifugio con vista generale sulla stanza, in più nelle vicinanze del termosifone.

Sono un essere autonomo e con questa scusa spesso Lei mi ha lasciato sola per tanti giorni, ma su questo ci tornerò. Il fatto è che invecchiando ho bisogno di più contatto fisico, di essere rassicurata di essere amata davvero. Non dovrei averne bisogno, visto che sono due estati che Lei mi assiste nei miei momenti di crisi. Ebbene sì, mi sono ammalata di reni. L’estate di due anni fa ho avuto un attacco tremendo di intossicazione generale, vomito e poi il cibo mi dava la nausea. Tutti i giorni per una settimana dal veterinario con una flebo, dove ci mettevano di tutto, ma l’appetito non mi tornava. Lei cambiava menu per prendermi per la gola, nasello lesso o acciughe crude spinate. Nella flebo mi iniettavano anche vitamine e carnitina, ma dopo sei giorni di digiuno le forze mi stavano abbandonando, non mi reggevo sulle zampe. Cominciavo a barcollare. In quella situazione mi sono messa tranquilla su di una sedia senza muovermi. Al settimo giorno sentendo il profumo delle acciughe fresche mi è successo qualcosa, ho ritrovato di colpo la mia forza vitale. Ho iniziato a mangiare, prima quasi imboccata poi da sola. Lei mi ha riempito di carezze, di baci e bacetti e ha esclamato: “Sei rinata. Un vero miracolo! Allora è vero che i gatti hanno sette vite. Non è un modo di dire, è proprio vero”.

Un’altra crisi si è ripetuta l’estate scorsa in agosto. Il mio dottore era in ferie, c’era il supplente. Ero stata di nuovo male. Mi ero nascosta in giardino sotto la siepe del vicino. Era arrivato uno di quegli acquazzoni estivi e Lei mi chiamava di continuo, ma non avevo una gran forza nella voce. Sentivo che in un parlottare con il nostro vicino, lui le diceva che quando i gatti sentono l’avvicinarsi della fine, almeno in campagna, si allontanano dalle case per morire in solitudine. Lei ascoltava perplessa, dubitava che potessi andare lontano, vista la mia debolezza. Nonostante la pioggia fitta ha continuato a cercarmi e la mia voce flebile ha risposto al suo richiamo, mentre lei mi passava vicino. Così mi sono ritrovata avvolta in un asciugamano, infilata nel trasportino e di corsa in viaggio verso la clinica veterinaria. Anche questa volta dopo una settimana di cure con una flebo giornaliera sono guarita. Intanto l’estate era giunta al termine e Lei pur di starmi vicino ha rinunciato a qualsiasi partenza.

Il pomeriggio Lei si siede dinanzi a quell’altro aggeggio, uno schermo luminoso con tastiera, sparendo dalla mia vista. La cerco, la saluto con la mia voce abituale, ci voglio essere anch’io. Le salgo in grembo sulla poltrona che è larga e ha uno schienale alto. Sulle gambe tra il tavolo e il computer non c’è molto spazio, ma il sedile è largo e ci possiamo stare in due. Scivolo verso lo schienale e scopro che c’è uno spazio in cui mi posso sistemare, attaccata come un cuscino al suo morbido fondo schiena. In casa ci sono molti tavoli e io preferisco quello grande di cristallo, perché nonostante la presenza di libri, penne, cartelline di fogli impilate, lì posso trovare spazio per distendermi e occupare il posto che mi merito.
In tutti questi anni ho avuto periodi in cui l’unica abitante della casa sono stata io. Lei partiva per dieci giorni poi tornava, poi ripartiva restandoci quindici. C’erano vari vicini che si sono occupati di me, poi quando le assenze si son fatte più lunghe, è arrivata una ragazza con due cagnolini bianchi e neri, che lasciava legati al cancello d’entrata.

La ragazza era gentile con me, nonostante non avesse un gran dimestichezza con la mia specie; seguiva le istruzione della mia convivente, mi pettinava, mi accarezzava, mi nutriva, mi puliva la lettiera, ma il tempo che mi dedicava non era mai abbastanza.
I viaggi si intensificavano. Lei partiva più spesso. Ogni volta mi baciava, mi stringeva forte e mi diceva che sarebbe tornata presto, perché sua madre stava male, era caduta e aveva bisogno di cure. Le dispiaceva lasciarmi lì da sola, ma non poteva fare altrimenti. E’ stato un periodo lungo che mi ha intristito parecchio, nonostante la ragazza seguisse le istruzioni di accudimento che aveva ricevuto.
Lei al rientro tentava di riprendere la sua vita, ma era sfasata. Il suo corpo era con me nella nostra casa, ma la sua mente era occupata da pensieri circa l’inevitabile peggioramento della salute di sua madre e della necessità di assisterla.

La sua tristezza diventava la mia. Si sa noi siamo empatici. Anche di notte cercavo di alleviare la sua tristezza. Mi arrampicavo sul letto e cercavo il contatto con il suo viso, acciambellandomi nell’incavo della spalla, quando Lei si coricava sul lato destro, oppure quando stava sdraiata sul dorso puntavo a piazzarmi sul cuore. Azionavo il mio motorino speciale e strofinavo muso e vibrisse sul suo mento, sapendo che questa trasmissione amorevole di energia l’avrebbe aiutata.
Noi gatti sappiamo star fermi per ore restando però vigili. Scegliamo un luogo di nostro gradimento e per un po’ contempliamo ciò che ci circonda con orecchie e vibrisse ben ritte a percepire qualsiasi rumore o movimento, anche lo sbatter d’ali di una farfalla, o il ronzio di una mosca. Poi se tutto è tranquillo entriamo in uno spazio di meditazione. L’occhio si appanna, non guarda più fuori, ma dentro. Ho notato che la mia prediletta segue i miei cambiamenti improvvisi, quando da una posizione rilassata giro di colpo la testa verso un punto nello spazio, che cattura la mia attenzione. Allora Lei mi interroga: “Ma cosa c’è? Che cosa hai visto? Piccolina!” Lei guarda nella stessa direzione ma non vede niente. Io non posso proferir parola perché questo è un nostro mistero di specie e non voglio alimentare certe dicerie esoteriche sul nostro conto, come la visione dello spirito dei defunti . La nostra reputazione è già stata infangata da credenze e superstizioni varie nei riguardi dei miei consimili di colore nero.

Certamente la mia naturale tendenza a meditare ha influito sulla mia convivente. Un pomeriggio in cui eravamo sul divano, io sulle sue gambe distese e Lei presa dalla lettura, ad un certo punto ha lasciato cadere il libro di lato ed è rimasta ferma, in silenzio a non far nulla. Non era altrove nei suoi viaggi immaginari. All’improvviso mi ha accarezzato. Ho voltato la testa verso di lei, i miei occhi fissi nei suoi per percepire quale fosse il prossimo movimento. Tutto fermo. Ho notato che il suo respiro era lento come il mio. Lei era presente, serena, come se il tempo si fosse fermato, il mondo lì fuori sparito, c’eravamo solo noi due in quell’attimo di sospensione. Soltanto i nostri respiri calmi e quell’onda di energia che ci avvolgeva nel silenzio totale, dandoci pace.

Un’ultima cosa. La sera quando lei chiude la porta esterna e sta per spegnere la luce nella stanza, nonostante il mio solito pisolino, la chiamo mezza addormentata perché voglio il bacio della buonanotte. Questa è una novità dovuta al mio invecchiamento e alla stretta convivenza di questo periodo così eccezionale, prima non me ne importava un gran che.
Lei si avvicina mi da un bel bacio sulla fronte e mi dice “Dormi tranquilla, fai bei sogni! Buonanotte piccolina”.


Titti (Maria Antonietta) Follieri vive nella campagna fiorentina. Traduttrice dal francese e scrittrice, collabora a diverse riviste italiane e straniere con traduzioni, saggi, testi poetici e narrativi.
Ha pubblicato le raccolte di versi Dell’amore il sogno (1980), Switmagma (Gazebo,1985), Topologia di un mandala (Edizioni del Leone, 1991), il racconto Un arcobaleno (con il pittore Stefano Turrini, Morgana, 2000) e il romanzo La voce delle mani (Pendragon, 2003); la raccolta di racconti Piccoli smarrimenti quotidiani (Editrice Zona,2009); il memoir La solitudine della cattedra (Editrice Zona, 2013); la raccolta di versi Tessiture spaziali ( Morgana 2016).

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