libro-storia-valeria

di Valeria 

 

Lo avevo visto tre volte, tutte e tre a casa di Giada. La prima volta lo avevo a mala pena notato, e tra l’altro per un dettaglio abbastanza insolito: aveva una maglietta a maniche corte in pieno novembre con il diluvio fuori, quando neanche il più temerario dei palestrati avrebbe osato indossarla per mostrare i suoi muscoli. La mia curiosità non si era spinta oltre, probabilmente perché ritenevo un po’ “spostato”, e dunque non particolarmente degno di un qualche minimo interesse, un tizio che a novembre indossasse ancora una maglietta tipicamente estiva. Mi limitai solo a chiedermi come facesse a non sentire freddo con il cotone addosso, quando io già ero
passata al collo alto. Dopo poco più di dieci secondi, tuttavia, avevo già smesso di fissare interdetta quella maglietta e avevo iniziato a pensare ad altro, anche perché la torta era appena stata portata a tavola.

Il mio sguardo tornò a posarsi sulle sue maniche corte un paio di ore dopo, quando lo incrociai mentre attraversava la stanza per andare via, ancora nel bel mezzo della festa. La seconda volta, invece, me lo ero ritrovato davanti per caso: avevano suonato al campanello e, essendo nei paraggi della porta, avevo aperto io, dato che ancora sentivo Giada in cucina inveire contro il forno nuovo che continuava a non accendersi. Quella sera voleva fare le lasagne, ma non aveva messo in conto che forse prima di tutto sarebbe stato il caso di leggere per qualche minuto il libretto delle istruzioni.

Mi ritrovai davanti due ragazzi. Anzi, dovevano essere tre, avevo visto un braccio in più spuntare dal fianco di uno dei due. Ma no, non c’era nessun braccio. Avevo visto male. Poi riapparve.
Scusate ma quanti siete, due o tre?”, chiesi alla fine, perplessa. “Tre. Cioè dovevamo essere due, a Giada avevamo detto solo io e lui”, disse indicando l’amico. “Però non volevamo lasciare Sam a casa da solo, è un problema?” Mi spostai leggermente per cercare di intravedere questo Sam, ma vidi praticamente solo una mano alzata svogliatamente in segno di saluto. Pensai che fosse abbastanza maleducato, dato che oltre ad essersi imbucato non aveva detto nemmeno un banale “ciao”.
Non feci in tempo a dire che non pensavo ci fossero problemi che sbucò Giada: “Finalmente!”, disse quando con lo strofinaccio ancora in mano mi raggiunse sulla soglia della porta. “Ce l’avete fatta ad arrivare. Leti, loro sono Nicola e Giulio, hai l’onore di conoscere per prima i miei cugini preferiti! Ma aspetta…ah ma ci sta anche Samuel! Sono contenta che sei venuto alla fine, hai fatto bene. Torno in cucina, raggiungete gli altri in veranda che arrivo”. Giulio e Nicola entrarono. Chi fossero loro lo avevo capito, ma chi fosse questo Samuel che neanche mi aveva salutata ancora dovevo scoprirlo.

La risposta mi arrivò dopo pochissimi istanti, quando, entrando anche lui, alzò il viso: mi bastò un attimo per capire che doveva essere proprio il tipo della maglietta turchese a novembre dell’anno prima. Vidi nei suoi occhi lo stesso identico colore. Senza volerlo, scesi subito con lo sguardo per controllare se indossasse quella maglietta a maniche corte. Aveva una felpa: pensai che fosse assurdo, era fine aprile e stavolta anche io ero in maniche corte. Ma dai su, riflettendoci un secondo, assurda era anche la mia supposizione: perché doveva essere proprio lui? Avere gli occhi dello stesso colore di una maglietta che probabilmente avranno avuto centinaia di persone poteva giustificare la mia identificazione azzardata? Piccolo problema: tutti questi ragionamenti li feci fissandolo perplessa per un tempo sufficientemente imbarazzante da fargli dire, un po’ infastidito: “Scusa, ma ci conosciamo?”. Record: avevo già fatto una figuraccia prima ancora di aver profferito parola. Fantastico! Farfugliai in fretta un “no no” e, dopo essermi leggermente scansata per farlo passare, rimasi ancora qualche secondo sulla porta, confusa. Mi riscosse Giada strillando dalla cucina: “Letizia ti prego vieni tu perché io altrimenti questo forno lo brucio!”. Sorrisi, pensando fosse divertente bruciare qualcosa che serviva proprio a bruciare.

Perché si, ero sicura che, nell’eventualità in cui il forno avesse deciso di collaborare con noi, le lasagne, quella sera, Giada le avrebbe bruciate. E così fu, infatti. Risi tutto il tempo mentre mangiavo ciò che si era salvato, sentendomi anche un po’ in colpa perché mi pareva le avessi portato sfortuna.
Per tutto il resto della serata lo evitai, scansando il pensiero della figuraccia che avevo fatto qualche ora prima e guardandolo con la coda dell’occhio solo di tanto in tanto per vedere se per caso mi osservasse ancora infastidito. Pensavo che, alla fine, tra i due quella maleducata fossi stata proprio io: lui in fondo non mi aveva rivolto parola per salutarmi, solo questo, mentre io mi ero messa a squadrare per bene un perfetto sconosciuto davanti ai suoi occhi senza neanche accorgermene.

Comunque, avrebbe anche potuto evitare di farmi quella domanda: si sa, io sono curiosa e mi piace osservare le persone… Si sa?…Ma come faceva a saperlo, lui che non mi conosceva affatto?! Eppure c’era qualcosa di strano, qualcosa che non mi tornava…quegli occhi, forse. Poi, d’un tratto, il flusso dei miei pensieri si interruppe bruscamente: eravamo rientrati in casa dalla veranda e lui si era appena tolto la felpa. Era rimasto con la maglietta turchese. Ed era proprio quella maglietta, proprio di quel turchese che si abbinava perfettamente ai suoi occhi. Trasalii leggermente: il mio istinto aveva indovinato. Mi rimisi a fissarlo, e stavolta non per la stranezza delle maniche corte indossate in una fredda e piovosa giornata invernale, ma per pura curiosità: era particolare, “magnetico”. Non era bellissimo, i suoi lineamenti erano forse un po’ troppo duri e il naso mi sembrava curiosamente storto. Oltre a quegli occhi così intensi, erano i capelli a piacermi particolarmente: erano a metà tra ondulato e riccio. Non esiste un aggettivo per descriverli, non lo trovo. Non erano né mossi né ricci, ma erano belli così, indefiniti e ribelli.

Neanche dopo aver notato questo particolare riuscii a distogliere lo sguardo: non ero “appagata”. Qualcosa continuava ad attirarmi. Qualcosa continuava ad incuriosirmi. Ma cosa fosse, esattamente, non riuscivo a comprenderlo. Stavo cercando di capirlo in quel momento, mentre osservavo i suoi occhi vispi che scrutavano tutta la stanza: avevo come la strana sensazione di averlo visto da qualche parte. Non intendo solo quel giorno di novembre, no: mi pareva di averlo incontrato anche da qualche altra parte. Forse era questo che mi intrigava così tanto di lui. Eravamo più familiari di quanto potessi immaginare? Forse lo conoscevo già? Non riuscivo a darmi risposte, probabilmente era solo un’impressione sbagliata.

D’improvviso, smise di guardarsi attorno e posò lo sguardo su di me. Inevitabilmente, dato che ancora lo stavo fissando, i nostri sguardi si incrociarono. Mi sentii colta sul fatto: aveva sicuramente capito che lo stavo osservando! Ero spacciata… avevo fatto un’altra figuraccia dopo quella della porta, con la stessa persona e di nuovo senza aver parlato… anche ora erano stati i miei occhi curiosi a tradirmi, proprio come poco prima. Tuttavia, non feci neanche in tempo ad arrossire per la vergogna che si alzò di scatto, salutò tutti velocemente e andò via. Ero incredula: come quel pomeriggio di novembre, se ne era andato un’altra volta. Di punto in bianco. Nel bel mezzo della serata. E, di nuovo, ci eravamo guardati. Con una differenza però: mentre allora
aveva incrociato il mio sguardo casualmente uscendo dalla stanza, questa volta invece mi aveva guardata intenzionalmente. Volevo spiegazioni. Forse se ne era andato proprio perché lo avevo messo a disagio ben due volte con la mia inopportuna curiosità? Pensai di andare via anche io, fermarlo un attimo e chiedergli scusa: mi sarei giustificata dicendo che lo stavo osservando ripetutamente perché mi pareva di ricordare di averlo già visto da qualche altra parte. Mi pareva di riconoscerlo insomma, ma non riuscivo a capire bene chi fosse…
Ebbene, non ne ebbi il coraggio, mi sembrava una scusa sciocca e poco credibile. Passai il resto della serata in disparte, persa tra congetture e pensieri.

La terza volta lo vidi sempre a casa di Giada, mesi dopo. Lo riconobbi subito, senza indugio, senza bisogno di squadrare ulteriormente: non poteva che essere lui, con quella felpa e quei capelli ribelli. Appena lo vidi, mi mancò un battito. Ero talmente imbarazzata che pensai addirittura di andare via per evitare ogni eventuale situazione spiacevole. Mi trattenne giusto il pensiero che avrei fatto una figuraccia proprio se mi fossi comportata in quel modo ingiustificato: avrei dato nell’occhio se me ne fossi andata via all’improvviso, senza apparente motivo. Tra l’altro, per fortuna, ancora non mi aveva notata: non c’era pericolo, dovevo restare calma e comportarmi come se nulla fosse. Per una mezz’ora il mio piano funzionò. Proprio quando iniziavo a
tranquillizzarmi del tutto, successe di nuovo: si tolse la felpa. Di nuovo quella maglietta, di nuovo quel turchese.

Tutti i miei sforzi si vanificarono in un attimo, perché anche quella volta non riuscii a trattenermi dal guardarlo. Mi intrigava troppo per potergli resistere: la mia attenzione era totalmente rapita da lui e mi tornò prepotentemente nella mente e nel cuore la sensazione di conoscerlo, di averlo già incontrato. Le domande si fecero sempre più martellanti, insistenti, incalzanti: non volevo più spiegazioni come quella sera di aprile, adesso ne avevo bisogno.
Mi guardò. Anche quella volta si accorse che lo fissavo. E anche quella volta, tutt’a un tratto, se ne andò. Fuggì dal mio sguardo indagatore, dalla mia curiosità, dai miei mille interrogativi. Sembrava un copione per uno spettacolo ormai in continua ripetizione. Ma io, ora, volevo diventarne attrice, non più limitarmi a essere spettatrice.

Che cosa avrei dovuto fare? Necessitavo assolutamente di risposte, sentivo di doverci parlare subito per chiarirmi le idee e fugare ogni dubbio. Chi era? Ci conoscevamo? Se si, dove lo avevo incontrato? Non potevo più aspettare, non avevo più tempo per riflettere su cosa fare o meno. Era la terza volta che lo incontravo: stesso gioco di sguardi, stessa “fuga sospetta” e stessi interrogativi che mi ronzavano in testa. Era ora di capirci qualcosa in più: mi precipitai giù per le scale, lo raggiunsi fuori in strada. Lo fermai prendendolo per un braccio. Si girò a guardarmi.
Trafelata, col cuore in gola, lo guardai negli occhi per l’ennesima volta: finalmente, però, adesso eravamo vicinissimi e quel turchese mi parlava chiaro. Fu quel turchese a rispondermi al posto suo. Non servivano parole. Ma del resto avrei dovuto aspettarmelo, dato che i nostri dialoghi erano sempre e solo stati “visivi”. Con un filo di voce gli dissi semplicemente: “io ti conosco”. Senza punto interrogativo, ormai ne ero certa. Lui, annuendo leggermente, abbozzò un sorriso, per poi liberarsi dalla presa e ricominciare a camminare veloce, via da me, come sempre. Ero felice di aver avuto la conferma definitiva, ma continuava a tormentarmi il fatto di non riuscire a ricordare il luogo in cui lo avevo visto e conosciuto per la prima volta. Sembrava quasi venisse da un’altra dimensione…

Un suono improvviso, fastidioso e prolungato mi fa sussultare. Con uno scatto mi metto a sedere sul letto. Sono frastornata e confusa. Mi guardo attorno ancora mezza addormentata e realizzo che è stato tutto un sogno. Un sogno incredibile, ma solo un sogno. Su un display nero, in rosso, sono segnate delle cifre. Leggo “7:00”. È la sveglia, è lunedì. Mi vesto in fretta, esco di corsa: ho ripreso il contatto con il mondo reale, ma la mia mente viaggia ancora sospesa in quello della fantasia, rimuginando di continuo su quel sogno così strano, così misterioso, così intrigante. Non riesco a pensare ad altro che a quel ragazzo dalla maglietta a maniche corte. Sull’autobus, per strada, nel corridoio dell’Università rischiarato dal sole del mattino, continuo a chiedermi se lo
conosco davvero e se lo ho incontrato da qualche parte… Ma che pensieri mi vengono in mente! Quante sciocchezze! È solo un sogno!

Mi siedo in aula: di qui a cinque minuti inizierà la lezione. È tempo di smettere di pensare alla fantasticherie e concentrarsi.
In quell’istante, una voce mi chiede: “è libero questo posto?”. Alzo il viso: capelli ribelli, occhi turchesi, maglietta a maniche corte. È lui, in carne ed ossa. È reale. E questa volta non fugge.

 


Valeria è una giovane studentessa iscritta alla Facoltà di Filosofia, materia della quale è appassionata fin da piccola. Ama leggere, viaggiare, sognare ad occhi aperti e, ovviamente, scrivere.

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